“Trioria”, di vito ditaranto.

streghe

 

“Trioria”, di vito ditaranto.

 

 

Questa non è una di quelle opere moderne che mescolano la realtà alla finzione. Di tutte le conversazioni e gli eventi che ho descritto qui sono stato testimone diretto. E tenete bene in mente queste mie parole: Lei cammina ancora.
Orrore. Terrore. Sangue. Disperazione. Costernazione. Angoscia. Questa è la mia vita. Ora. Questa è la mia esistenza.
Prima di quel nefasto giorno erano baci. Lavoro. Famiglia. Amore. Calore. Dolcezza. Valentina.
Ora lei dov’è? Ora lei dove cammina? Camminava coi piedi scalzi nella neve. Nuda sotto il mantello. Non temeva il freddo. Il vento faceva vorticare i fiocchi e la foresta buia non era mai un timore per lei. Spesso si guardava attorno e conosceva tutte le piante e i germogli. Avvertiva la linfa scorrere dentro ai tronchi; sentiva le foglie palpitare. Ora dov’è? Dove sta trascinando i suoi passi lenti, crudeli, inesorabili, spietati, severi? Mi sta cercando? Io la vorrei trovare e darle pace. Finalmente. Nonostante l’orrore, il terrore, la paura.
È improbabile che questa storia possa destare grande interesse. Alla fin fine, riguarda persone sconosciute al pubblico. Una di esse adesso è defunta, l’altra vive solo nel senso puramente fisico del termine. Le prove che posso addurre a sostegno della veridicità di questo racconto sono quasi del tutto indirette; psicologiche più che circostanziali.

Quando ci conoscemmo ero un giovane laureato pieno di sogni, incapace d’immaginare un futuro inimmaginabile. Medicina, una tradizione di famiglia. Mi sentivo in obbligo di proseguire la strada dei miei avi, illustri luminari e docenti universitari.
La vidi. La pioggia non sembrava intenzionata a cessare nemmeno un secondo. I vecchi spergiuravano su quel maledetto tempo; i contadini bestemmiavano iddio per i danni al raccolto estivo causati dalla pioggia. La incontrai al mercato. Era sotto una specie di tenda tutta stracciata. Vendeva con la madre i raccolti della terra e del duro lavoro.
Dopo mesi di incontri clandestini pieni di passione, annunciai alla mia famiglia il nostro matrimonio. Un matrimonio con una popolana era malvisto dalla mia nobile famiglia. Non desistetti. E alla fine convolai a nozze, decidendo poi di trasferirmi in campagna. Nel paesino di lei. Partimmo di notte. Una fredda serata di fine settembre, mercoledì, tempo sereno.
La luna appariva chiazzata da ombre grigiastre e le stelle erano troppo brillanti per essere offuscate dalle luci sottostanti; di tanto in tanto soffiava l’alito freddo di un debole venticello che trasportava l’eco dei suoni notturni attraverso gli alberi, spingeva le foglie morte nei tombini, faceva rotolare le ghiande sui cornicioni e schiaffeggiava le mani e i visi della gente in una rigida promessa d’inverno. La linea dell’orizzonte sfumava nelle tenebre. Restava solo la notte.
Attraversammo la foresta, mentre un triste presagio illuminò il buio tra gli alberi … e vidi il corvo che sedeva sul ramo più alto dell’albero più grande del mondo. Un corvo gigante. Il più grande corvo che avessi mai visto in vita mia. E mi resi conto, immediatamente, che quel corvo sarebbe stato il mio unico compagno. Guardai il pennuto e domandai: «Credi che andrà tutto bene?»
Il corvo rispose: «Certo… andrà tutto bene… se riuscirai a capire». Rivolsi il mio sguardo a Valentina, che mi sorrise. La luce della luna illuminava il suo volto; il ghigno non mi sorprese. Speravo in un cambio di luce della luna, ma la luna aveva altri programmi e non smise di illuminare il suo volto. Contando fino a dieci, trasse un lento e profondo respiro. Un tempestivo fulmine squarciò il cielo, gratificando il suo senso del drammatico. I lampi che si susseguivano all’orizzonte con crescente frequenza annunciavano un violento temporale, ma noi proseguimmo il cammino.
Mi venne in mente che Trioria, il paese di Valentina, era anche conosciuto con il nome di Salem d’Italia. Avevo avuto modo, già prima, di documentarmi.

Sul finire dell’estate del 1587 a Triora, millenario borgo di montagna del Ponente ligure, tirava una brutta aria; da circa due anni la gente non aveva più di che sfamarsi e nel giro di pochi giorni alcune donne che abitavano alla periferia del paese furono ritenute responsabili di questa presunta carestia. L’accusa? Essere streghe, o meglio bagiué, secondo il dialetto locale. Nell’ottobre del 1587 il Parlamento locale, composto per lo più da persone rozze e ignoranti, con il beneplacito del Consiglio degli Anziani e del Podestà, stanziò cinquecento scudi per imbastire un processo; una cifra enorme in relazione alla condizione economica del borgo stesso. L’autorità ecclesiastica non tardò a intervenire; giunsero infatti il vicario dell’Inquisitore di Genova e il vicario dell’Inquisitore di Albenga, Gerolamo Del Pozzo. La prassi del tempo consisteva nel celebrare Messa nella chiesa parrocchiale, invitando il popolo alla delazione. Il Consiglio degli Anziani, essenzialmente composto dai proprietari terrieri, mostrò le sue perplessità verso il processo quando le prime “matrone” di Triora furono incarcerate. La delazione, gli odi e le invidie personali stavano dilagando a tal punto da mettere sullo stesso piano, di fronte alla macchina della giustizia, le nobildonne come le prostitute e le emarginate che “sopravvivevano” alla Cabotina, un quartiere composto da misere abitazioni, vista precipizio, che si ergeva all’esterno delle mura del paese. I due inquisitori non riuscirono a concludere il processo causa il repentino allargamento delle accuse a tutto il tessuto sociale. Nel frattempo però alcune donne imprigionate furono torturate e un paio addirittura morirono come la nobile Isotta Stella. Alla fine il tribunale fu sciolto e non si sa bene che fine fecero le donne incarcerate. Si dice che ancora oggi i fantasmi delle streghe di Triora si diano convegno attorno ai luoghi che le hanno viste protagoniste secoli fa.
Presi la mano di Valentina, la strinsi forte e le dissi: «Ti amo, continuiamo». E lei, con voce bassa e tesa, rispose: «Certo, continuiamo».
Arrivammo in paese che era ancora notte fonda. Ci avvicinammo a una vecchia casa diroccata alla periferia del paese. La luna piena illuminava il capanno degli attrezzi e le sedie del giardino; faceva assomigliare la notte fonda ai momenti incerti che precedono l’alba. Tutte le luci della casa erano spente e la porta chiusa a chiave.
Valentina cercò le chiavi ed entrò. Si concentrò solo sul respiro. Inspira. Espira. La casa appariva ordinata e pulita. Da fuori entrò aria fredda e uno spiffero sul collo la spinse a uscire dal semicerchio luccicante di alcuni vetri infranti che s’intravedevano nel centro dell’ingresso per esplorare il resto del locale. Vide la poltrona con il tavolino di fianco; poi, la grossa sveglia coi numeri luminosi sulla scaffalatura di metallo.
«Questa ci sarà utile…»
Continuavo a osservarla senza proferire parola. Si girò improvvisamente e mi abbracciò. Gli piaceva abbracciare chiunque si mostrasse gentile con lei; quel suo amore furbo lo si ve-deva diffondersi nei suoi lineamenti, accendendogli il desiderio di toccare. Pensai a quello che diceva sempre mamma a proposito di un ragazzino che prendeva l’autobus alla nostra fermata, un ragazzino che aveva il doppio della nostra età ma faceva la seconda elementare. «Non conosce la propria forza, per cui bisogna che stiate attenti quando gli siete vicini.»
Finalmente entrammo in quella che doveva essere la camera da letto e ci avvicinammo al nostro talamo. Tirai indietro la sottile sopraccoperta, mi tolsi orologio, riposi sul comodino gli occhiali e mi sdraiai lentamente in una sorta di docile resa.
Avevo scritto spesso e abbondantemente sul metodo, ma adesso pareva opportuno seguire la rotta più banale: riandare con la mente all’inizio della storia, rivivere la passata estate con accuratezza cronologica; solo dopo formulare chiaramente le domande che durante il lungo intervallo mi ero abituato a eludere così abilmente. Dovevo compiere, insomma, un’analisi completa.
Un’impresa incauta e presuntuosa. Eppure necessaria. Perversamente, a ossessionarmi di più erano ancora le domande dello stadio finale, quei perché e percome solo abbozzati che tuttavia rimuginavano nella mia mente come tanti burattini ribelli. Ci addormentammo.
Il giorno dopo ci risvegliammo come se fossimo vissuti in quel luogo da sempre. Avevamo creduto che quel po’ di futuro che ancora ci restava avesse dimensioni precise. Per la prima volta, dopo tanta amarezza, sentii nel profondo del suo animo un fremito, qualcosa che somigliava vagamente alla speranza.
Una mattina in paese vidi qualcosa di strano. Inizialmente non capii che fosse. Udii lo scalpiccio degli zoccoli, il tintinnio del metallo contro il metallo, ma poiché Valentina era rivolta verso il basso, in atteggiamento di benvenuto, mi accontentai di attendere.
La sua mano si strinse intorno alla mia. I cavalieri avanzarono uno alla volta. Passarono tra le guglie, situate vicino la piazza principale del paese; i primi due si disposero ai lati, con le armi in pugno. Quando videro una donna le rivolsero un richiamo. Evidentemente erano amici. Il quarto si avviò verso il punto in cui attendevamo io e la mia donna. Il cavallo era alto, massiccio, come se fosse stato selezionato per la sua capacità di reggere il peso. Ma il cavaliere era così piccolo di statura che mi parve un ragazzetto… fino a quando balzò a terra. Nella luce, il suo corpo appariva scintillante; brillavano, i riflessi, sull’elmo, la cintura, la gola, il polso. Le sue ampie spalle facevano spiccare ancora di più la modesta statura. Le braccia e il torace sembravano più adatti a un uomo alto almeno un terzo di più di lui. Portava un usbergo di maglia metallica, che gli aderiva addosso come se fosse una stoffa, e cedeva ad ogni movimento delle sue membra con estrema elasticità. L’elmo aveva un cimiero raffigurante un uccello ad ali distese. Oppure era un uccello vero, cristallizzato da un incantesimo in quell’immobilità innaturale? Gli occhi brillanti fissavano con cupa ferocia. La liscia calotta metallica su cui stava posato terminava in una sorta di sciarpa di maglia, avvolta intorno al collo e alla gola. La tirò, impaziente, mentre camminava, liberando così il suo volto. Non mi ero ingannato, dopotutto. Il guerriero dall’elmo ornato di un falco era giovane. Giovane, sì, ma anche duro. Rivolse una domanda alla donna. Lei rispose con un torrente di parole, tracciando segni nell’aria. Il nuovo arrivato, allora, sfiorò il proprio elmo, in un evidente saluto allo straniero, ma era la donna a dominare la situazione. Indicando il guerriero, iniziò una lezione linguistica: Astaroth . Non poteva essere altro che un nome proprio. Il guerriero trasalì, e portò la mano all’arma appesa alla cintura. La donna corrugò la fronte; la sua espressione divenne così fredda e distante che mi diede l’impressione di aver commesso un grave errore. Il guerriero, mostrando una deferenza che non s’intonava con gli abiti laceri della donna, ma che appariva giustificata dalla sua aria autorevole, la fece salire dietro di lui su un gran cavallo bruno. Si allontanarono e scomparvero fuori dal paese inoltrandosi nella foresta.
L’episodio mi rese ancora più incerto e incapace di comprendere tutto ciò che mi circondava. Valentina mi prese una mano e la strinse con forza.
Molto tempo dopo, mi ritrovai immobile in un nido di lenzuoli e coperte. Fissavo, senza vederla, la curva del baldacchino di legno scolpito. Se non avessi tenuto gli occhi spalancati, sarei sembrato addormentato, come lo ero pochi minuti prima. Ma la vecchia capacità di passare dal sonno alla veglia non era andata perduta con il mio ingresso in quel nuovo mondo che ancora non ero riuscito a comprendere. Ero impegnato ad analizzare le impressioni e a classificare ciò che avevo scoperto, cercando di collegare un fatto all’altro per ricavare un quadro concreto delle vicende, al di là di quel letto massiccio e dei muri di pietra della stanza.
Il letto… Eppure, mentre fissavo gli intagli del baldacchino, trovai qualcosa che mi era familiare, stranamente familiare… come se i simboli avessero un significato in procinto di rivelarsi. Mentre pensavo al significato dei simboli, non so come, mi ritrovai in una stanza del tutto nuova. La stanza dava su un corridoio; poco più avanti c’era una scala che scendeva. L’impressione di antichità trovò conferma nei gradini consunti, nel solco che correva lungo la parete sinistra, dove per chissà quanti secoli era stata sfiorata dalle dita di coloro che passavano di lì. Una luce pallida s’irradiava da globi posti in alto, entro canestri metallici. Ma l’origine di quel chiarore restava misteriosa. Ai piedi della scala c’era un corridoio più ampio, percorso da uomini dagli usberghi a scaglie; si trattava di guardie in servizio. Alcuni portavano abiti più comodi guardavano verso me con curiosità invadente; tutto mi pareva vagamente sconcertante: per di più nessuno parlava. M’indicarono un passaggio nascosto da una tenda. Scostarono un lembo della stoffa in un modo che esprimeva un ordine. Oltre la tenda c’era un altro corridoio. Ma qui la pietra nuda delle pareti era coperta da arazzi ornati degli stessi simboli che avevo rinvenuto sul baldacchino del letto, per metà familiari e per metà alieni. Una sentinella si mise sull’attenti, portandosi alle labbra l’elsa della spada. La sala sembrava più grande di quanto fosse in realtà, perché aveva una volta altissima. La luce dei globi era più forte, e i loro raggi, sebbene non riuscissero a penetrare fra quelle ombre, mostravano chiaramente la scena. C’erano due donne… ma dovetti osservare più attentamente per riconoscere in quella che stava in piedi, con la destra posata sulla spalliera di un seggiolone su cui sedeva l’altra, la donna che avevo visto salire sul cavallo del cavaliere. I capelli che allora le scendevano sulle spalle in ciocche fradice erano raccolti severamente in una reticella d’argento. La sua figura era coperta dalla gola alle caviglie da una pudica veste dello stesso colore nebbioso. L’unico ornamento era un cristallo ovale come quello che allora aveva portato sul bracciale: ma era appeso a una catena e riposava tra le piccole curve dei seni. La donna aveva lo stesso volto triangolare, gli stessi occhi indagatori, gli stessi capelli corvini ravvolti in una reticella. Ma il potere che irradiava era violento come una folgore. Sembrava senza età. Alzò la mano di scatto e mi lanciò una sfera che sembrava dello stesso cristallo nebuloso che lei e la sua compagna portavano come gemme. L’afferrai al volo. Al tatto non era fredda come avevo immaginato, ma tiepida. E mentre la circondavo istintivamente con le palme, la mano della donna si racchiuse sulla gemma, in un gesto subito imitato dall’altra. Non riuscii mai a spiegare, neppure a me stesso, ciò che avvenne allora. Nello stesso istante compresi che entrambe le donne vedevano ciò che io avevo visto; in una certa misura condividevano le mie emozioni. Appena questa sorta di rituale ebbe fine un torrente di informazioni rifluì verso di me. Le due donne non mi chiedevano nulla: il loro orgoglio era inflessibile. D’improvviso svenni e mi risvegliai nel mio letto con Valentina che mi teneva candidamente la punta delle dita della mia mano sinistra. Non c’era calore umano in quella pelle: non aveva il freddo del metallo o della pietra, ma di una sostanza immonda e flaccida, sebbene apparisse compatta allo sguardo.
«Secondo me, Astaroth sta causando guai.»
Le sue parole caddero nel silenzio. Lei scosse il capo. Mi riaddormentai e dimenticai l’accaduto. Il sole calò e la luna brillava nuovamente cupa in alto nel cielo.
Passarono i giorni. Nel frattempo, nel mondo intorno a noi, la guerra imperversava. Fui mandato al fronte come ufficiale medico, ma un colpo di mortaio interruppe presto la mia carriera militare. Tornai da lei ferito nel fisico e nel cuore. Lei mi curò. Con amore. Dita ruvide. Mani inesperte.
Valentina rimase presto incinta. La gravidanza fu difficile. Lei fu costretta spesso a letto e non poche volte venne presa da sconforto e disperazione. Temeva il momento del parto. Temeva il dolore. Stringeva i denti per dominare la paura. Poverina. Non si immaginava niente.
Era sul finire della primavera. Già nei campi si preparava il primo raccolto. La terra stava per regalare la sua abbondanza. E la sua maledizione. La guerra distruggeva intere nazioni, ma la natura restava indifferente al conflitto. Le notizie giungevano anche a noi. Gli alleati stavano preparando un attacco. Forte, imponente, risolutivo* . Ingannati dal fumo, i colpi degli Alleati finirono nell’interno; quando i primi uomini della 29° Divisione di Fanteria americana toccarono terra, furono falciati dal fuoco incrociato di mortai e mitragliatrici. La mattina del 6 giugno 1944 mi svegliai di soprassalto. Valentina urlava. Stava partorendo. Non corsi a chiamare la levatrice. Pensai di potermela cavare da solo. Cosa potevano quelle sciocche tradizioni davanti alla scienza moderna?
Mai assistetti a un parto più difficile. Il bambino non si era del tutto girato e faticava a uscire. Valentina era allo stremo delle forze. Sapevo quello che c’era da fare, ma non potevo. Non su di lei. Mai l’avrei fatto. Mi feci coraggio. Pensai: “Per ogni individuo ci sono… talismani che vanno trovati. Prove da superare. Enigmi da risolvere. E, alla fine, nel posto più buio di tutti, una creatura temibile. L’Altro, l’Io, che più di ogni cosa desideri che non sia tuo. Solo se hai il coraggio di abbracciare quell’Io potrai imparare la parola magica”.
«La parola magica?»
Lei riusciva a muovere solo la testa. E scuotendo il capo, disse per tutta risposta: «La parola magica, sì». Dopodiché chinò il capo. Si mise a guardarmi da sotto le folte sopracciglia. E stava ancora fissando i miei occhi quando la bocca si spalancò. Con un ultimo sforzo sovrumano, Valentina riuscì infine a partorire il bambino. Un maschio. E una cascata di sangue. Purpureo presagio. Porsi il piccolo alla madre. Roseo, paffuto. Ignaro del dolore. Lo appoggiai sulla pancia di Valentina, che lo guardò. Gli accarezzò i capelli sporchi e bagnati e si accasciò. Era morta.
Piansi. Mi disperai.
Solo il carattere resta vivo nel silenzio, nell’ora in cui ci vengono tolte le incrostazioni dagli occhi e possiamo finalmente vedere che cosa c’è davvero sulla punta di una forchetta – per dirla con W.Burroughs – solo dopo il crollo della coscienza può arrivare il sogno. È a questo punto estremo che avviene il cambiamento.
Il piccolo intanto vagiva imperterrito. Mi son voltato e ho visto Valentina sollevarlo in aria. I suoi occhi lo fissavano, io la fissai, gli occhi negli occhi, ma era come se non ci vedessimo. Piegò la testa di lato, come per porsi una domanda. Poi con un movimento rapido morse il bimbo alla coscia. Lui gettò un urlo terribile, che ancora oggi mi risuona come un’eco nella testa. Dolore. Paura. Incredulità. Valentina stava divorando il suo stesso figlio. Disse sottovoce: «Tu vuoi il fanciullo; nostro figlio. In qualche modo hai bisogno di lui. Ma non solo della sua vita: hai bisogno che sia con te, hai bisogno che sia dalla tua parte. È questo, vero? Qui tutto è freddo… la notte tace… Qui tutto è freddo e la morte chiama». Un altro sospiro, una lacrima solitaria, il desiderio di chiudere gli occhi e …
Il vento ululava, una nenia che lo cullava, cullava il fanciullo ed alla quale non sapevo sottrarmi, monotona, lugubre e spaventosa. Impietrito dall’orrore, rimasi inchiodato al pavimento. I piedi erano divenuti grossi macigni. Ero come trattenuto da un peso invisibile. Non riuscii a fare altro che guardare mentre lei affondava i denti in quella carne innocente e rosea. Le viscere del piccolo si riversavano come acque impazzite nella sorgente materna. E lei lambiva i pezzi di carne pulsante con la lingua. Quando il bambino smise di strillare, Valentina lo gettò via come una bambola di pezza stracciata. Con il sangue che le colava dalle fauci e la vestaglia divenuta ormai rossa, mosse i passi verso di me. Qualcosa allora mi riscosse. Il suo sguardo forse. Di terrore e disperazione. Il viso era privo di espressione, i lineamenti composti, ma c’era uno sguardo atterrito, quasi implorante, nei suoi occhi. E poi disse: «Ascolta! Lo senti? È lo stesso. È proprio lo stesso».
Fu un attimo. Uscii di casa e mi misi a correre più veloce che potei verso la piazza del paese. Con la mente annebbiata, incerto sulle gambe, ancora una volta mi ritrovai preda di quella nauseante impressione che la mia vita non fosse reale.
E sì, lo sentivo, lo sentivo … nelle strade, nelle case, che mi circondavano, da ogni parte.
Tic-tac. Tic-tac.
Scossi la testa, cercando di schiarirmi le idee. «È questo quello che non mi hai mai detto» disse con voce fioca, come se arrivasse dall’estremità di una galleria. «È questo che manca nel tuo racconto.»
E il suono si ripeté: Tic-tac. Tic-tac.
È arrivato il momento, pensai. Stavo davvero morendo, stavo scivolando negli abissi, per entrare nelle fantasie di Valentina… Forse morire era così: non restavano altro che sogni. Fui assalito da una fitta di dolore alla testa e non riuscii a trattenere un gemito; mi premetti il dorso delle mani sulla fronte, ricordai di aver provato quella sensazione di estraniamento mentre mi trovavo tra le rovine e pensai. Non adesso. Non posso crollare proprio adesso. Devo resistere, con la forza di volontà. Devo restare con lei.
Tic-tac. Tic-tac.
Continuai a correre. Continuai la mia strada, in mezzo alle trasformazioni del mondo, anch’io trasformandomi. Appena calpestai il selciato, vidi alcune persone. Mi accasciai al suolo. E quando mi ridestai, mi rimisi in piedi, e voltandomi corsi a casa.
Nessuno era andato fin laggiù. Qualcosa stava succedendo. Ovunque. Io non li ascoltai. Non seguii i loro consigli. Giunsi a casa. Trovai la porta spalancata. L’aria della casa era fredda, secca, non aveva odore; era l’atmosfera di una caverna. Ma poi, mentre avanzavo veloce, cominciai ad avvertire un cambiamento. Dapprima solo a folate quasi impercettibili, una brezza fresca mi sfiorò. Una brezza ricca dell’umidità della nebbia, con un lieve sentore di terra e d’inverno. Serrai le mascelle, strinsi i denti. Accelerai il passo, zoppicando. L’aria si fece più ricca, più umida, più viva. Sentii il pavimento che si alzava sotto i miei piedi. Respirando in fretta, mi voltai e indietreggiai nella casa di un passo. Due, tre. Eccola, una nicchia di lato, appena visibile. La luce tremula e intermittente della luna filtrava illuminando la casa. Mi mossi in direzione della luce. Osservai nuovamente quella nicchia sulla parete, mai prima notata. Mi avvicinai. La nicchia emanava una strana luce. Abbassai la testa e intravidi una cripta, una distesa di nebbia e chiarore lunare. Un campo di tombe. Un olmo morto piegato verso il basso come in preghiera. E il triangolo del muro diroccato che svettava scuro attraverso la foschia nel cielo turbinante. Indietreggiai. Mi guardai intorno atterrito. Emisi un sospiro esasperato. Valentina non c’era più.
A parte il vento e lo scricchiolio delle foglie morte contro le pietre, il luogo era silenzioso. Una scia di gocce di sangue s’inoltrava nel bosco ai piedi della montagna.
Sul pavimento, gettato come un cumulo di stracci abbandonato, si contorceva la massa di carne che un tempo era stata mio figlio. Ne raccolsi i resti, che fremevano tra le mie mani, mentre un istinto demoniaco lo spingeva a tentare di mordermi le dita. Seppellii mio figlio nel giardino di casa. In una buca profonda. Una lapide spezzata sul terreno, fatta di pietre recuperate sul terreno stanco e sporco. Lo seppellii dove avrebbe smesso di dimenarsi quando la natura malefica che lo aveva creato se lo sarebbe ripreso attraverso le bocche dei vermi divoratori. La luna scomparve dietro una nube e la nebbia divenne più spessa e grigia. Il vento emise un sospiro cupo. Le nubi si dispersero. Il chiaro di luna inondò la terra, e brillava turbinando nelle profondità grigie e fumose dei miei occhi. Vidi in lontananza, in penombra, Valentina. Il suo sorriso s’intravedeva a malapena nell’oscurità.
Questa è la storia. Questo è stato il mio Giorno del Giudizio. Sono dannato, credo. Ma forse lo siete anche voi dopo aver letto il mio racconto. Il motivo è ovvio. Escludendo forse Dio, esiste un unico testimone della vita interiore di un uomo. Quando questo testimone non è perfettamente consapevole di sé o non è affidabile o è morto, diventa molto difficile giungere alla verità sul suo mondo emotivo. Quindi per le persone cieche, disoneste e morte ho dovuto ricorrere alle mie impressioni. A volte ho reso esplicite tali deduzioni; spesso ho sperato che il contesto chiarisse la loro natura. In definitiva, dovrà essere il lettore a giudicare in quale misura la mia comprensione della natura umana sia viziata da pregiudizi oppure sia fallace.
Ora sono in cerca di lei.
La mia Valentina.

 

*6 giugno 1944 – Omaha Beach. Si consumavano le prime fasi dello Sbarco in Normandia, un evento epico e tragico che ha cambiato il corso della storia. Navi di ogni stazza si erano staccate dalla vicina Inghilterra per portare uomini e mezzi in Francia e liberarla dal giogo nazista. Il primo colpo di cannone avvisò i tedeschi asserragliati nei bunker sulla collina: l’Invasione era iniziata. Le imbarcazioni al largo e gli aerei dall’alto cominciarono a scaricare tonnellate di piombo, sino a rendere l’aria irrespirabile. Dovevano sgomberare il terreno ai soldati per quello che sarebbe rimasto per sempre la più grande operazione militare della storia.

 

 

Ora “Sorridi”. E quando avrai un momento di smarrimento o indecisione, fermati, aspetta e senti il tuo cuore.
…a mia figlia Miriam con infinito amore…vito ditaranto.